di Ilario Giambrocono e Alfonso Napoli
La conclamata fedeltà delle traduzioni non è un criterio che porta all’unica traduzione accettabile […] La fedeltà è piuttosto la tendenza a credere che la traduzione sia sempre possibile se il testo fonte è stato interpretato con appassionata complicità, è l’impegno a identificare quello che per noi è il senso profondo del testo, e la capacità di negoziare a ogni istante la soluzione che ci pare più giusta.
Se consultate qualsiasi dizionario vedrete che tra i sinonimi di fedeltà non c’è la parola esattezza. Ci sono piuttosto lealtà, onestà, rispetto, pietà[1].
Dell’Eneide di Publio Virgilio Marone, traduzioni “accettabili” – segno di come nel flusso del tempo possa rinvenirsi quel sentimento composito dello spettatore verso l’opera d’arte, animato da rispetto per la fama, fascino dell’antico e partecipazione al culto dei classici (Luigi Pareyson) – ve ne sono state, e molte: la versione in endecasillabi sciolti di Annibal Caro, che ha dominato sui banchi fino a qualche decennio fa, la traduzione vagamente esametrica di una studiosa “dall’animo grande quanto quello di Omero” (Cesare Pavese), Rosa Calzecchi Onesti (Einaudi, Torino 1967), la resa in versi liberi di Luca Canali (Mondadori – Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1978-83), sono solo alcuni fra i testi a fronte del latino virgiliano.
Ultimo a confrontarvisi, Alessandro Fo, docente ordinario di Letteratura latina all’Università di Siena, nell’autunno del 2012 ha pubblicato per Einaudi la sua Eneide, accompagnata per la maggior parte dei versi dalle note di commento di Filomena Giannotti (“Nuova Universale Einaudi”, pp. CVI – 926).
La scelta formale si orienta su un particolare tipo di esametro “barbaro”. All’interno di una tradizione che pure ha prodotto traduzioni notevoli (ricordiamo l’ampia antologia di Filippo Maria Pontani, Edizioni Dell’Elefante, Roma 1977, e le integrali di Luciano Miori, Manfrini, Rovereto 1982 e di Giuseppe Vergara, Fratelli Conte, Napoli 1982), Alessandro Fo ha ricavato un suo spazio peculiare, coniando un verso duttile, regolato da un complesso di norme ‘interne’ che ora sarebbe troppo lungo ripercorrere. Generalmente parlando, dobbiamo partire dalla nostra impossibilità di riprodurre la metrica quantitativa e l’accento melodico-musicale del latino; per ovviarvi, i latinisti praticano una convenzione per via della quale leggiamo i versi latini privando le parole del loro accento grammaticale, e dotandole invece di un accento ritmico della stessa natura intensiva del nostro accento. L’operazione di Fo – divergendo dalle soluzioni isometriche ottenute dall’associazione di versi propri della tradizione poetica italiana, ad esempio gli ottonari uniti a novenari di Daniele Ventre nella traduzione dell’Iliade (Mesogea, Messina 2012) – ha come fine la creazione di un sistema metrico vicino alle configurazioni metriche del testo di partenza; un sistema in cui possono alternarsi misure dattiliche (un tempo forte seguito da uno debole realizzato in due sillabe) a misure spondaiche (un tempo forte seguito da uno breve realizzato in un’unica sillaba). Sia d’esempio la resa in lingua italiana dei versi che chiudono l’Eneide, hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit/ fervidus; ast illi solvontur frigore membra/ vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras, (XII 950-952) nelle soluzioni rispettivamente di Rosa Calzecchi Onesti, Luca Canali e Alessandro Fo: “Così gridando, gl’immerge nel petto la spada/ senza pietà. Con un fremito s’abbandonò allora il corpo,/ e la vita gemendo fuggì angosciata fra l’ombre”; “Dicendo così, gli affonda furioso il ferro/ in pieno petto; a quello le membra si sciolgono/ nel gelo, e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre”; “Questo dicendo, gli affonda il ferro diritto nel petto,/ fervido. E a lui in un brivido si disciolgon le membra,/ e con un gemito fugge, sdegnata, la vita fra le ombre”. Benché nelle prime due traduzioni l’orecchio del fruitore percepisca l’eco sfumato del verso eroico, questa eco diviene voce chiara soltanto nell’ultima, dove la fuga dell’anima di Turno è così scandita: é con un gémito fúgge sdegnáta la víta fra leˬómbre. Nella successione italiana di cinque dattili più la chiusa bisillabica sono riverberate la sostanza semantica delle parole, le giunture fra di esse, l’orchestra dei suoni dell’originale latino.
Questi segni linguistici ricorrono identici nella descrizione del Fato che funesto intercetta la giovane età dell’eroina dei Volsci Camilla (XI 831), svelando una caratteristica ineludibile della narrazione epica: la formularità. La scrupolosa osservanza di questo aspetto nella resa italiana, contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, rappresenta un criterio guida innovativo, peculiare del lavoro del Fo, in direzione del mantenimento di quelle tessere formulari che compongono il mosaico della dizione epica. Una scelta verso cui non si erano sentiti obbligati i precedenti traduttori: in Canali, ad esempio, a questa locuzione virgiliana corrispondono due esiti differenti (nell’XI “e la vita con un gemito fuggì dolente tra le ombre”; nel XII “e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre”), mentre nella nuova traduzione ritroviamo in entrambi i luoghi “e con un gemito fugge, sdegnata, la vita fra le ombre”.
Appassionato complice di Virgilio, il poeta di Bucoliche (al telescopio) (Una Cosa Rara, 1996, ora in Corpuscolo, 2004), ha tessuto la trama virgiliana con acribia, ponendo attenzione alle sfumature formali, foniche e semantiche del testo di partenza, dialogando con l’arte del poeta mantovano così intimamente da riprodurne strutture estremamente sottili. Il dikolon abundans – lo sviluppo con variazione di un tema nell’ambito di pochi versi solitamente mediante coordinazione – in una delle sue occorrenze viene così riproposto in italiano: hactenus, Acca soror, potui; nunc vulnus acerbum/ conficit et tenebris nigrescunt omnia circum “Acca, sorella, ho potuto fin qui. Ora acerba ferita/ mi finisce, e d’intorno si fa tutto nero di tenebre” (XI 824-825); così invece lo hysteron proteron – l’inversione nell’enunciazione di due eventi cronologicamente connessi – è mantenuto nella formulazione della lingua d’arrivo: […] succurritis urbi/ incensae moriamur et in media arma ruamus “[…] è una città fra le fiamme/ che soccorrete: moriamo e gettiamoci in mezzo alle armi” (II 352-353).
Tali espedienti formali – ai quali vanno aggiunti almeno enallagi, cum inverso e una spiccata attenzione alle alliterazioni e alle altre trame foniche – sorvegliati puntualmente dal senso della misura e dell’equilibrio ‘classico’, sono abiti mentali virgiliani funzionali ad un nuovo modo di esprimere l’epica. Una ‘tecnica’ caratteristica, in cui la tendenziale ‘oggettività’ tradizionale dell’epos viene infranta dall’inclinazione connaturata a Virgilio verso empátheia (narrazione condotta dall’interno dell’animo dei personaggi) e sympátheia (interventi di commento soggettivi da parte dell’autore). At regina dolos (quis fallere possit amantem?)/ praesensit motusque excepit prima futuros/ omnia tuta timens […] “Ma la regina gli inganni (chi può raggirare chi ama?)/ presentì, e in anticipo colse il futuro, temendo/ pur fra la calma […] (IV 296-298) è un esempio che mette in luce i due concetti espressi: allorché Didone intuisce l’imminente partenza di Enea, il suo punto di vista è interiorizzato dal poeta e corroborato da una domanda soggettiva di portata universale.
La profondità di senso del testo dell’Eneide sta nella materia e nel come essa è stata plasmata: il trionfo di guerra e la conseguente fondazione di una città destinata alla gloria vengono narrati attraverso la lente dell’attenzione al dolore dei vinti (in guerra e nei sentimenti, Pallante e Didone), a quello di chi viene immolato dal Fato sull’altare della Storia (le giovani morti di Eurialo, Niso, Camilla, Turno), alla fatica di chi della pesantezza del destino si fa carico (Enea). Una sofferenza che Virgilio aveva sperimentato su di sé, quando a seguito delle guerre civili aveva subito l’espropriazione dei campi, una sofferenza che chi traduce l’Eneide non può non provare in qualche misura, data l’estensione di tempo necessaria a condurre in porto il viaggio della traduzione. Un percorso disseminato di riferimenti mitologici, antiquari, geografici, del cui significato si dà conto nel corredo di note stilato da Filomena Giannotti. Nato come progetto di notazioni erudite a delucidazione del testo, esso ha fronteggiato i problemi così numerosi del dettato virgiliano, assumendo un taglio argomentativo in cui vengono comunicate idee dell’autrice stessa o valorizzate posizioni importanti di altri studiosi. In sostanza, un commento continuo all’Eneide, che ha il pregio di aprire prospettive interpretative non strettamente erudite. Così accompagnato nel suo viaggio – siccome tradurre da una lingua ad un’altra vuol dire tendere ad eclissarsi nel testo di partenza, far sì il più possibile che lo sguardo sull’altro diventi lo sguardo dell’altro (Antonio Prete), cercare di mettersi a parte obiecti e non solo a parte subiecti – Alessandro Fo, chiamato all’Aufgabe des Übersetzers, ha dovuto vestire il ruolo del negoziatore, quello che gli antichi Latini chiamavano interpres, con una metafora culturale che dà alla traduzione una configurazione economica:
Colui che si pone fra due lingue, o fra due testi scritti in lingue diverse, si prefigge in definitiva come scopo quello di raggiungere un compromesso. Attraverso un processo di aestimatio, egli deve trovare un accordo fra i due testi, individuando la vis che deve essere mantenuta, nel passaggio fra le parti, perché la transazione possa essere considerata equa […] Sia come sia non ci sono dubbi che in casi come questo la figura dell’interpres coincida con quella dell’auctor […] colui che di un testo promuove la conoscenza e che si pone come auctoritas, come luogo e sede dell’autorevolezza interpretativa[2].
Un commercio condotto dall’interprete di Virgilio, Alessandro Fo, con virtus (competenze linguistiche e poetiche), pietas (devozione verso il testo di partenza e partecipazione ad esso), fides (fedeltà all’originale latino nelle scelte formali e nella comunicazione del contenuto) e magnitudo animi (assunzione su di sé del senso intimo del testo fonte e lucida comprensione che tradurre significa “limitare le perdite”, parole che fanno da titolo ad un paragrafo dell’introduzione). Lo stesso complesso di valori che, paradigmaticamente personificati in Enea, fondano quell’universo dell’Eneide che ancora oggi si presta ad essere rivissuto dall’animo del lettore.
[1] U. Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano 2010, p. 364.
[2] M. Bettini, Vertere. Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Einaudi, Torino 2012.
